La decadenza della Commedia e della  Tragedia in epoca romana con particolare riguardo all’Italia meridionale e la Sicilia

Con l’espansione di Roma, l’Urbe dovette far fronte all’aumento di spettatori dai gusti più o meno raffinati. Il teatro vide così un ampliamento di estimatori nelle sue file: avventurieri, mercanti, legionari, gladiatori, giovani e donne, in particolar modo le cortigiane che preferirono lo spettacolo al dramma. In quest’ambiente la commedia e la tragedia, dovendosi rivolgere e adeguarsi a questa immensa folla, decaddero. Il teatro si adeguò indirizzandosi a composizioni più accessibili per gusto a tutti e che particolarmente si prestassero ai due motivi favoriti da quel pubblico: l’oscenità e, lo spregio della censura, l’allusione poetica. Trionfò così l’atellana, farsa popolare, originaria della Campania, introdotta a Roma probabilmente alla fine del IV sec. a.C., che era rappresentata con l’ausilio delle maschere, le quali ritraevano le fattezze di alcuni personaggi fissi, dall’aspetto deforme e dal carattere sciocco e volgare. Fu in un secondo tempo elaborata letterariamente, ed ebbe la funzione d’intermezzo o di farsa finale. La trama era caratterizzata e movimentata da intrighi, equivoci, incidenti; fu rappresentata da personaggi che si esibivano con maschere fisse, convenzionali, come Maccus (il mangione), Pappus, (il vecchio rimbambito), Dossenus (il gobbo, furbo e malizioso) a cui se ne aggiunse un’altra, Kikirrus, una figura mitologica, a forma di animale. Un semplice canovaccio, permetteva ogni sorta d’improvvisazioni buffonesche. Gli spettacoli si svolgevano nei teatri regolari, per opera di attori dilettanti, che recitavano fra un atto e l’altro delle commedie, anche a sipario chiuso, oppure, come exodium, cioè alla fine. Verso la fine del II secolo a. C. il crescente interesse dimostrato dagli spettatori, spinse alcuni autori ad aggiungere una forma scritta agli episodi e alle occasioni più amate: inizia così un nuovo genere, l’atellana letteraria, i cui personaggi sono modelli fissi, figure ridicole e volgari; Maccus (lo scemo), Bucco (l’ingordo), Pappus, (il vecchietto), Dossennus, (il gobbo). Gli attori indossavano una maschera e un costume diversi per ogni personaggio, le vicende, di poca durata e semplici nella forma, si basarono su una comicità spesso triviale e grossolana, imperniata particolarmente sui temi del sesso e del cibo ed espressa con un linguaggio molto immediato. La maschera teatrale per i romani, rappresentò soltanto un paravento che celava il volto e che nascondeva l’identità di chi li indossava, non ebbe come i greci una funzione religiosa. Il pubblico che gradì le storie di Maccus e degli altri personaggi fu molto attratto dal mimo, che sostituì e dominò la popolarità dell’atellana. Anche i fliaci, gli spettacoli tipici delle colonie greche della Magna Grecia e Sicilia (già conosciuti fino alla seconda metà del IV sec. a.C. soltanto nelle produzioni vascolari e diffusi dalla fine del V sino al III sec. a.C), influenzarono le origini del teatro latino. La farsa fliacica originariamente era composta da episodi di vita quotidiana, dove gli attori improvvisavano, indossando costumi e maschere caricaturali, aventi spesso per protagonisti anche gli dei. La farsa fliacica proposta in forma letteraria è da attribuire al drammaturgo greco Rintone di Siracusa (323 a.C. – 285 a.C.) artefice dell’ilarotragedia che operò principalmente a Taranto, città ben conosciuta per la sua produzione vascolare.