Amazing grace

I viaggi sono propri dei disperati, di chi ha perduto la speranza, di chi rifugge qualcosa, di chi avverte il tizzone sotto le suole dell’asfalto e non ha pace, né può continuare a rimanere lì dove cova un dolore.

Da qualche parte si legge, da altre si dice, e qualcuno viaggia pure.

Noi non eravamo ancora disperati, non avevamo perduto la speranza, non rifuggivamo qualcuno, non avvertivamo l’asfalto bollente, forse serbavamo in corpo un genere diverso di bollore che scaricavamo lungo le strade dei nostri sparuti incontri amorosi.

Eppure eravamo in viaggio. Invitati a partecipare ad un festival musicale. E camminavamo sul nostro trabiccolo. Non avevamo soldi da spendere in pacchi regalo, negozi da visitare, empori da percorrere in lungo e largo, né piazzole di ipermercati entro le quali sostare in attesa che la nostra commessa preferita ci sculettasse di fianco.

Potevamo sentire il tintinnio metallico delle poche monetine che tenevamo strette dentro le tasche dei nostri jeans laceri di sudore e adrenalina, ché altro non riuscivano a trattenere le tasche. I documenti svolazzavano sul pavimento della ottoecinquanta, conoscevamo i nostri nomi e nessuno venne a chiederci mai chi eravamo.

Portavamo con noi amplificatori scalcinati che per lungo tempo erano stati alcove di insetti e residui d’erbe mai del tutto evaporate. Avevamo alloggiato a caso su quel mezzo dinoccolato anche i nostri pensieri, ma il vino complice li rendeva leggeri, spingendoli oltre le teste crinite.

Gli occhi cercavano di raccogliere la luce delle strade che a passo lento percorrevamo, le orecchie erano pronte a carpire voci e suoni nuovi. E lo stomaco brontolava. Non che avessimo fame, a parte Mario che non perdeva occasione per ingozzarsi, tutti noi bilanciavamo quell’insaziabile appetito, che spesso ci rendeva dubbiosi sulla natura del nostro batterista. Lo stomaco brontolava perché avvertivamo nelle viscere la prova che ci attendeva.

Forse l’ennesima a filo di sbronza, forse un’altra pantomima nella quale ci saremmo lestamente calati le brache prostrandoci a baciare il culo delle nostre insicurezze, o forse altro.

Carichi di rabbia musicale, consapevoli d’aver qualcosa di diverso da mostrare alla gente. Fuori tutte le paranoie, le implicazioni filosofiche del cazzo che Johnny soleva mettere tra noi e la porta del capanno, fuori da quel trabiccolo gli eccessi di Sax e le mie balbuzie di passaggio.

Fluivamo come un corpo solo. Musicisti di ventura. Senza un’idea precisa da inseguire, liberi di sbagliare perché avvezzi a farlo.

Ho vissuto quel tempo, soppesandolo sul palmo della mia mano, allora giovane, adesso meno. Senza grosse screpolature da lavoro, senza i calli della vecchiaia, soltanto l’avvizzimento dovuto ad un bicchiere di troppo, ad una solitudine in più.

Sulla strada verso Roma non avrei pensato di ritornarci.

Di rimanerci in quella città che tutto avvolge nel suo vortice di storia che inebria e stordisce, più di quanto possa fare il traffico urbano. Sono le strade e le chiese a renderti completamente ateo e dunque più credente. Vedi sugli strati di una città molteplice l’incedere del tempo, non il misero rintocco di una vita sprecata, ma il silenzio assordante di migliaia di occhi che in qualche momento, a distanze siderali, si sono soffermati sul selciato dell’Urbe.

Toccava a noi prendere un po’ di quei colori, e trattenerli nella memoria.

Dopo infiniti chilometri e infiniti bicchierini tirati tutti d’un sorso, arrivammo nella capitale, sotto il sole cocente che brucia l’asfalto e rende i pensieri innocui. Ettore sull’inseparabile rosella aveva appuntato l’indirizzo del teatrino che avrebbe accolto le nostre gesta musicali.

Con estrema difficoltà riuscimmo a trovarlo.

Non c’erano TomTom, né cellulari, né tracciati internauti, di cartine stradali della città nemmeno a parlarne, eravamo partiti dal nostro villaggio che conoscevamo a memoria.

Ci accolse una tipetta tutto fuoco dal sorriso gaudente e la stretta vigorosa. Una signora sulla cinquantina, un peperino dall’abbondante scollatura nascosta appena dallo striminzito reggiseno. Copriva gli occhi, che scorgemmo invecchiati, dietro una montatura di vetri opachi enorme per la sua testolina bionda. Sostenuta in tutto, nella parola e nelle movenze, ci spiegò la situazione. Disse che era lieta di averci tra i partecipanti, ma glielo sentimmo ripetere a tutti. Disse che era necessario versare la quota della cena di premiazione, ma glielo sentimmo ripetere a tutti. Disse che quel festival da poco inaugurato costituiva il crocevia delle nostre carriere musicali, nominò alcuni cantautori, una sfilza di nomi di improbabili band che mai avevamo sentito e lo disse a noi, e lo disse a tutti. Poi ci indicò la piccola pensioncina in cui avremmo alloggiato, luogo convenzionato con il festival.

Nella stanza angusta in cui quel ritrovato di elettricità femminile ci accolse non c’erano che una scrivania e alcune stampe sbiadite dei tempi d’oro del Folkstudio, ma nulla a che vedere con l’essenza di quegli anni.

Pensavamo in cuor nostro d’incontrare alcuni di quei meravigliosi protagonisti, pionieri di una musica figlia delle idee, ma nulla di tutto ciò che speravamo accadde.

Accadde, invece, che al pomeriggio iniziarono le esibizioni.

Eterogenee.

Un duo si sistemò pronto a spaccar tutto, lo leggevamo negli occhi di quei tipi.

Indossavano delle camicie a fiori che di certo Sax avrebbe usato come un doppio foulard, pantaloni attillati di un giallo sgargiante, pronti ad essere riconosciuti da un cieco nelle profondità della notte. Imbracciavano come armi, come noi, due chitarre acustiche. Erano pronti a spararci addosso, senza alcuna pietà. E lo fecero, con un brano melenso che non parve finire mai. E dal fondo della sala un applauso mesto si sollevò discretamente dopo un tempo che non eravamo riusciti a quantificare.

Noi stanchi e spossati dal viaggio e dalle bisbocce non riuscivamo a sopportare certe sdolcinerie.

Avevamo pregiudizi allora.

Seguì una cantante folk, una ragazza dal corpicino ben tornito e gli occhi fuori dalle orbite, sulla falsa riga di una novella Joan Baez si esibì su una base che sembrava provenire dall’aldilà, talvolta gracchiante e incerta, lanciandosi in avventati guizzi melodici tanto arditi da stordirci.

Iniziavamo lentamente ad uscire dal nostro torpore.

Venne il turno di una band che sistemò qualche amplificatore sul palco.

Speravamo in qualcosa di migliore, ma anche lì il pezzo era lento e poco incisivo.

Le perplessità raggiunsero il culmine quando un tipo tutto punto vestito si mise dietro un pianoforte miseramente scordato e accennò un vecchio classico della musica napoletana.

«Ma dove cazzo siamo finiti? »

«Festival delle nuove tendenze? »

«A dire la verità inizio a pensare che da qualche parte ci sarà un mucchio di fiori che non abbiamo ancora visto, sembra la copia sbiadita di Sanremo.»

«Un Sanremo de noantri.»

«Un Sanremo triste, che porterebbe alla disperazione pure il santo.»

«Vi prometto che se qualcuno inizia col dire che dobbiamo abbassare il volume o roba del genere mi calo i pantoloni e gli piscio in faccia.»

«A proposito ma il bagno? »

«Boh, questo teatrino sembra un rudere della seconda guerra mondiale, avete visto i palchetti. Qualcuno sarà venuto a far spese per arredare il proprio appartamento. Tutto sradicato, antine divelte, poltroncine strappate via come fogli di carta.»

«Sarà stato un belvedere, in qualche tempo.»

«Si? Ma quale? »

«Ai tempi di Camillo Benso conte di Cavour.»

«Siamo a Roma! »

«Ed io che pensavo fossimo a Sanremo.»

Uscimmo con il morale sotto i tacchi. Quanti chilometri c’eravamo sorbiti in quell’interminabile viaggio? E perché? Per ascoltare quei quattro randagi, per posare gli occhi sulle tette enormi della biondina o per suonare davanti ad un pubblico continentale?

Ecco il punto. Il pubblico. La giuria, a quanto ci fu dato di capire, era composta dalla tettona, visibilmente a suo agio con affari e per nulla avvezza alle questioni musicali, poi un tipo occhialuto dall’abbigliamento sessantottino che s’era ben guardato di rinnovare, c’era anche un tizio che parlava a vanvera e, infine, un misterioso produttore di non so chi, che misterioso e oscuro rimase per tutta la durata della manifestazione. E oltre. Lo scorgemmo alla fine, verso le quattro del mattino, noi sbronzi da far paura, sostenere con le sue mani misteriose la scollatura accidentalmente uscita fuori della biondina, mentre Sax s’apprestava a sparare un’interminabile pisciata su un portone barocco, o che tale ci parve.

La notte romana scivolò via sulle nostre spalle come un macigno.

Ci unimmo ad alcuni gruppetti sparuti di bohemiens, malinconici figli dei fiori fuori tempo massimo, che ci portarono in giro lungo il filo della follia. A raccattar miserie, a consumarne altre.

Fu una notte di parole, intersecate a respiri affannati e stanchi, forse sinceri. Sax parlò a ruota libera delle sue angosce. Della paura che più l’attanagliava, quella di rimanere schiavo del proprio corpo. In una serie di riflessioni che non riuscii a comprendere fino in fondo. Johnny parlò del padre come mai aveva fatto fino ad allora, Mario del terrore di rimanere solo, senza la possibilità di condividere fino in fondo la sua esistenza. Che senso ha vivere tutto questo se poi non hai nessuno con cui condividerlo, mi diceva.

Ecco, tutti parlavano, con me. Ed io ascoltavo.

Non avevo nulla da dire, e forse più miseramente mi rendevo conto di non volerlo dire quel nulla.

Di essere incapace di condividerlo.

La notte disegnò un filo, teso e sottile tra noi. Invisibile agli occhi degli altri. Ettore riusciva a seguirlo nel suo dipanarsi, forse sapeva bene che sarebbe andata in quella maniera, del resto fu lui a spingere perché ritornassimo insieme. Tendine lacerato o non, paranoie di fughe e insicurezze varie a parte. Aveva indirizzato il suo sguardo oltre la quotidianità, aveva azzardato, insolitamente. No, mi sbaglio. Sapeva già che sarebbe andata in quella maniera.

Ettore sapeva molte cose su di noi, più di noi stessi. Ettore era in grado di ascoltarci nel profondo, più di quanto io presumevo d’esser capace. Ettore aveva scritto la nostra storia, un canovaccio che ci attenevamo a seguire, ma non ne eravamo consapevoli, allora.

L’indomani con le teste oppresse da un torchio post sbronza colossale c’indirizzammo come zombie verso il teatrino. Eravamo convinti che più cercassimo di presentarci al meglio delle nostre possibilità più tutto andava a puttane, dunque quella notte non ci crucciammo affatto di porre limiti tra noi e la divina provvidenza di bacco e le puttane che ci svegliarono stanchi. La coppia di dei che molti vorrebbero aver sempre convitata in casa ci piegò pesantemente le ginocchia, ma non tanto da fermarci lungo il nostro cammino.

Avremmo aperto le selezioni pomeridiane del secondo e ultimo giorno.

Il buio della sala e il palchetto scarno non erano un gran bel vedere, di certo non costituivano una situazione stimolante, una spinta a «far del vostro meglio» come invece tenne a dire la signora tutta tette prima di lanciarsi in una delle più misere presentazioni cui abbia mai assistito. «Vengono dalla Sicilia e hanno fatto tanti chilometri, la Bohème

Grazie al cazzo.

Suonammo un blues tirato, almeno questo ricordo. Ecco, il ricordo. Non so più cosa suonammo quel pomeriggio, ma ho precisa nella mia mente la sensazione di una performance pirotecnica. E quella lontana sensazione, perduta nella memoria che inizia a tradirmi, è accompagnata dall’eco degli applausi della sparuta giuria e di tutti i concorrenti che ci avrebbero seguiti in quella grottesca manifestazione. Ma non fu in quel brano, nel pezzo che tanto avevamo preparato e di cui non ricordo il nome, la sostanza della nostra vittoria.

Venne alcuni istanti dopo.

Quando ancora non s’era spento l’ultimo applauso, costretto a rimanere sospeso in quello spazio angusto, Sax si avvicinò a Johnny chiedendo un la maggiore, il nostro chitarrista sudato per lo sforzo appena sostenuto non parve capire, poggiò con sufficienza le dita sulla tastiera fin quando Sax dallo sguardo particolarmente assorto condusse il medio di Johnny sulla terza corda, sulla quarta il mignolo e sulla quinta l’anulare. Poi sempre sotto gli occhi sbigottiti di tutti, compresi noi, Sax accarezzò le corde della chitarra, e un suono pieno e gentile venne fuori dall’amplificatore.

A quel punto ho creduto di scivolare sulle mie gambe quando a cappella Sax ha intonato una versione di Amazing Grace che neppure una fedele riproduzione digitale sarebbe stata in grado di ricreare.

L’aria sapeva di musica, era densa, così come la profondità della sua voce. E forse è per questo che la memoria m’inganna, vi sono ricordi che prevalgono, suoni, profumi, colori che soppiantano altri. Scelte della mente, priorità che non riusciamo razionalmente a controllare.